11 Luglio 2016

La luce in fondo al tunnel per una famiglia siriana

 

di Joelle Bassoul, responsabile di comunicazione in emergenza di Oxfam, da Amman, Giordania.

Questa volta l’atmosfera è più rilassata. Risate e scherzi riempiono la stanza e i volti hanno una luce di speranza inconfondibile. Abed (per precauzione il vero nome è stato cambiato, come quello di tutte le persone citate) mi racconta cosa è successo negli ultimi mesi da quando ho conosciuto la sua famiglia in un appartamento piccolo e malsano nella periferia di Amman, la capitale giordana. Li incontro nuovamente nella casa del fratello, in cui si sono trasferiti.

I bagagli sono in attesa in un angolo. Domani voleranno in Florida, negli Stati Uniti. Hanno un biglietto di sola andata verso la sicurezza e una nuova vita.
Dopo i primi due incontri con il personale per il reinsediamento nel 2015, il nostro caso è rimasto sospeso fino a marzo di quest’anno“, dice il padre di quattro figli, tirando fuori da una busta di plastica i documenti in arabo timbrati dall’Organizzazione Internazionale per le migrazioni (OIM), che ha preso in carica il loro caso. Le domande dettagliate e le risposte danno alla famiglia di rifugiati siriani un’idea circa la loro vita futura: In quale stato andrò a vivere? Ci sono altri arabi?
Abed, Reema e i quattro figli, fuggiti dopo la guerra che ha devastato la loro città, Homs, non hanno mai viaggiato in aereo e sono impazienti di prendere il volo verso gli Stati Uniti. Solo una cosa appanna la loro felicità: l’assenza del bimbo più piccolo Mohammad. “Quando ci hanno chiamati per proseguire le pratiche a marzo, i funzionari continuavano a chiedermi dove fosse Mohammad. Un ufficiale entrava nella stanza, faceva la domanda, ascoltava la risposta, e se ne andava per lasciare il posto a un altro che faceva lo stesso. Una decina di loro mi hanno chiesto di Mohammad“.
La risposta era sempre la stessa: il cuore del piccolo non ha resistito abbastanza fino alla fine del processo di reinsediamento. Si è fermato a novembre 2015 dopo aver combattuto contro un deficit congenito. È stata la malattia di Mohammad che ha accelerato l’elaborazione del caso, dal momento che il processo di reinsediamento negli Stati Uniti può richiedere fino a 24 mesi. Il bambino non ha vissuto abbastanza a lungo per sentire i raggi del sole della Florida sulla pelle.
Ho il suo certificato di nascita e di morte”, dice Abed. La memoria del bambino rimane in quella della sua famiglia in ogni momento. “È un angelo che veglia su di noi. Ci proteggerà. Inshallah”, dice sua madre Reema. I tre figli e la figlia non lasciano ai genitori il tempo di piangere per l’assenza del fratello. Saltano, cantano e si esercitano in inglese. “Come si dice: mi puoi dare un po’ d’acqua in inglese?” Chiede Safaa, 7 anni. La madre risponde immediatamente. “Ho imparato un po’ di inglese in Siria”, dice con orgoglio, “e Abed e io di recente abbiamo partecipato a un’introduzione culturale di tre giorni”. Anche se la famiglia è stata allontanata dalla propria terra, Siria e Giordania condividono una cultura simile e sono stati quindi in grado di adattarsi rapidamente. Per loro, attraversare l’altro lato dell’Atlantico è un salto nel buio, che produce allo stesso tempo eccitazione e ansia.
La famiglia ripassa l’elenco di tutte le cose che riceveranno: casa con affitto pagato il primo mese, un finanziamento da parte dello Stato, scuole, corsi di inglese, e, per ultimo, la carta di soggiorno permanente. “Ma per questo, abbiamo bisogno di rimanere nel paese per mille giorni“, spiega Abed.

(Al momento della pubblicazione, Abed e Safaa cominciano una nuova vita negli Stati Uniti)

Non ti mancheranno la Siria e i tuoi fratelli rimasti a Homs?” Chiedo. “Mia madre ha pianto molto quando le ho detto che saremmo partiti. Può darsi che si riesca a tornare un giorno, quando ci sarà la pace, ma soprattutto quando i bambini avranno ricevuto un’istruzione adeguata. Non c’è più niente in Siria. Hanno raso al suolo la nostra casa”.

[/vc_column_text][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”34645″ img_size=”medium”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Abed riflette un momento, come per assimilare l’importanza che il viaggio avrà per tutta la famiglia. Sa di essere tra i pochi fortunati ad esservi riusciti. Anche se il presidente Obama ha promesso di reinsediare 10.000 rifugiati siriani tra il settembre 2015 e il settembre 2016, fino ad ora il numero di persone accolte è meno della metà. “Sono disposto a fare qualsiasi cosa per far sì che le cose vadano bene negli Stati Uniti “, dice Abed, prendendo il figlio più piccolo sulle ginocchia. “Venderemo pannocchie sulla spiaggia, se necessario, giusto Moussa?” Dice mentre bacia il bambino sulla testa.
La spiaggia. Quella parola magica che riesce a eccitare i quattro bambini. Hanno visto le onde e la sabbia solo in televisione. Reema ancora non riesce ad abituarsi all’idea che le donne indossino il bikini. Guarda Abed con un sorriso timido, per poi chiedere: “Pensi che possa indossare il velo lucido in Florida?” Il marito sobbalza: “Sicuramente si mette via il burqa!” il fitto velo nero che copre il volto delle donne, con cui solo gli occhi sono visibili.

Stand as one

Il prossimo settembre i governi di tutto il mondo si incontreranno alle Nazioni Unite a New York per definire il loro impegno concreto per le persone costrette a fuggire: questo è il momento di chiedere loro di cambiare il destino di queste persone.

Chiedi al Governo Italiano di impegnarsi per garantire sicurezza, dignità e la speranza in un futuro migliore alle persone costrette a fuggire.

Firma la petizione: Stand as One. Insieme alle persone in fuga

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