La storia di Amira*

La dura e toccante testimonianza di Amira ci invita a riflettere sulla drammaticità della vita quotidiana nella Striscia di Gaza.

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Amira è vedova, ha cinque figli. Lavora in un’associazione partner di Oxfam. È stata costretta a lasciare Gaza e a cercare rifugio al Sud. Il Centro dove ha sede l’associazione per cui lavora ha ospitato lei e la sua famiglia, più altre centinaia di sfollati: Amira ha così iniziato ad occuparsi della gestione del centro e della cura di 300 persone sfollate.

Questa è la sua storia.

“L’odore di morte aleggiava nell’aria”

Sono Amira. Ho cinque figli, di cui due sono già sposati. Lavoro come responsabile dell’assistenza umanitaria e svolgo anche il ruolo di supervisore nei centri educativi per bambini, con particolare attenzione alla fornitura di servizi essenziali. Un giorno il nostro risveglio è stato scosso dalle esplosioni intorno a casa. La situazione è diventata sempre più pericolosa, la casa accanto alla nostra è stata bombardata e i cadaveri delle vittime abbandonati per una settimana. L’odore di morte aleggiava nell’aria e, senza acqua ed elettricità, la nostra esistenza era un incubo. Dopo sette giorni di guerra, sono stati distribuiti volantini che ci ordinavano di fuggire a Sud entro le due del pomeriggio di venerdì. Il panico ci ha travolti. Ho cercato disperatamente un rifugio per la mia famiglia. Le case dei colleghi e dei conoscenti erano già affollate, la situazione era sempre più complicata. Il direttore del centro in cui lavoro mi ha contattata, consigliandomi di recarci lì, sperando in una maggiore sicurezza.

“Il nostro viaggio verso Sud”

Quando abbiamo provato a partire, non siamo riusciti a trovare alcun mezzo di trasporto disponibile: niente auto, taxi, camion o tuk-tuk. Ho contattato mio fratello per organizzare il nostro viaggio verso Sud. Ha iniziato a trasportare i nostri familiari in gruppi. Eravamo un gruppo di cinquanta persone che camminavano lungo la spiaggia, tra cui donne incinte, madri con neonati, anziani. Alcuni di loro erano stati sottoposti a interventi chirurgici al ginocchio e alle articolazioni e altri soffrivano di malattie croniche, comprese patologie cardiache. Nonostante i bombardamenti continui, abbiamo proseguito il nostro viaggio. Eravamo dispersi e disorientati, ognuno di noi cercava disperatamente qualsiasi mezzo di trasporto disponibile per raggiungere la salvezza. Abbiamo iniziato il nostro viaggio alle otto di mattina e siamo arrivati alle cinque del pomeriggio. Durante questa terribile esperienza, nessuno di noi riusciva a concentrarsi su nulla.

“Non avremmo mai immaginato di rimanere bloccati qui per un periodo così lungo”

Quando siamo arrivati qui, non avevamo neanche un cambio di biancheria. All’inizio, pensavamo sarebbe stata solo una notte e che saremmo tornati la mattina successiva, convinti che la situazione si sarebbe risolta in uno o due giorni. Abbiamo portato solo i nostri certificati di nascita, i certificati scolastici o universitari, i documenti personali, qualche pannolino per i bambini e una piccola quantità di latte, quanto basta per un giorno. Non avremmo mai immaginato di rimanere bloccati qui per un periodo così lungo. Durante i primi due giorni abbiamo dormito direttamente sul pavimento, usando asciugamani, vestiti o tappeti come letti di fortuna. Aspettavamo con ansia notizie da Gaza. Dopo la nostra partenza, le nostre case sono state bombardate e abbiamo temuto per le persone rimaste lì.

“Abbiamo preparato cibo per tutti: bambini, adulti e anziani”

L’associazione ha messo a disposizione la sua sede perché desse rifugio a 300 persone, una cinquantina di famiglie. Mancava da mangiare e da bere. Mancavano le cose essenziali. Ci siamo sostenuti tutti a vicenda contribuendo con sforzi, competenze e quel poco denaro che avevamo. Abbiamo fatto affidamento su una forma di solidarietà sociale. Abbiamo preparato cibo per tutti: bambini, adulti e anziani. Abbiamo cercato di soddisfare in primis le esigenze delle persone con malattie croniche e dei bambini. Mi sono coordinata con l’associazione per rispondere alle esigenze mediche di coloro che vivono qui, compresi i farmaci per chi ha problemi cardiaci e di pressione. La direzione dell’associazione è riuscita a fornire a tutti i farmaci sufficienti per dieci giorni. Quando abbiamo finito il gas, abbiamo chiesto alle persone di essere pazienti e di consumare cibo in scatola poiché non potevamo cucinare. Presto, senza elettricità, ha iniziato a mancare anche l’acqua perché non c’era un sistema di energia solare per attingerla dai pozzi. Alla fine, abbiamo trovato un camion privato che ne distribuiva e ogni famiglia ha contribuito al pagamento per riempire le cisterne.

“Ho sperimentato molta sofferenza nelle guerre precedenti”

Ho già perso mio marito e mio padre e la mia unica speranza è di non perdere nessuno dei miei figli, ma sono rimasta scioccata dalla morte di alcuni dei miei colleghi. Alcuni di loro hanno perso i propri figli sotto le bombe e non sono riusciti a ritrovare i corpi, sanno che sono sotto le macerie.
Anche se cerchiamo di aiutarci a vicenda, anche se ormai appartengo in qualche modo a questo posto, mi sento un’estranea e desidero tornare a casa mia. Quando ripenso all’esilio palestinese e a quello che accadde nel 1948, non avrei mai potuto immaginare che quei giorni si sarebbero ripetuti o avremmo vissuto per una seconda volta quelle terribili sofferenze. Abbiamo sempre accolto le persone sfollate provenienti dalle regioni del nord e dell’est. Anche quando sono stata costretta a lasciare la mia casa, c’erano tre famiglie di sfollati che ospitavamo e anche loro adesso sono fuggiti con noi. Oggi siamo sfollati, viviamo questa esperienza e, nonostante la solidarietà e cooperazione, posso affermare con forza che è un’esperienza difficile. È difficile per i bambini e i giovani vedere la nostra vulnerabilità, vedere che abbiamo paura.

“Oggi le persone hanno imparato che sono parte della soluzione”

Oggi siamo tutti uniti: io ho la mia esperienza, tu hai soldi, qualcun altro ha delle conoscenze tecniche e qualcun altro ancora ne ha altre, ad esempio può assicurarci una linea telefonica per comunicare. Oggi le persone hanno imparato che, anche se ci sono problemi, possono essere parte della soluzione. Di solito, gli sfollati aspettano che qualcuno li aiuti, che fornisca loro dei servizi, ma nel nostro caso siamo sfollati e allo stesso tempo dobbiamo autosostenerci e trovare il modo di andare avanti. Per questo abbiamo invitato le persone che vivono in questo centro a unirsi a noi, in questo processo.

“Ci siamo dati dei ruoli intercambiabili”

Abbiamo distribuito tra le persone i vari compiti, ad esempio, cosa fare in caso di incendio, come utilizzare l’estintore, dove avverrà l’evacuazione e da quale uscita e abbiamo mostrato a tutti gli ingressi e le uscite.
Cerchiamo il più possibile di condividere le semplici conoscenze e mansioni, in modo che anche se qualcuno di noi morisse, qualcun altro sarà in grado di gestire questo posto. Circa un milione o più sono stati sfollati da Gaza. Oggi nessuno dei commercianti, dei negozianti o dei proprietari di grandi centri commerciali può raggiungere Gaza. Quando siamo stati sfollati per la prima volta, alcune persone sono andate a Gaza per acquistare quello che poteva servire, ma oggi hanno paura di farlo perché coloro che vanno a Gaza sono presi di mira.

“Speriamo che la notte finisca e poi speriamo che finisca anche il giorno”

Ho provato a regalare ai bambini dei giocattoli, alcuni dei vestiti avanzati dalle precedenti distribuzioni nel rifugio. Un bambino ha bisogno di trascorrere del tempo con suo padre e sua madre, quindi abbiamo destinato uno spazio nel cortile alle famiglie, perché possano trascorrere del tempo insieme, ma dopo le esplosioni all’ospedale Al-Maamadani con le persone lì riunite, abbiamo avuto paura di tenere le famiglie all’aperto. È una responsabilità enorme riunire le persone in un unico luogo sapendo che sono esposte al pericolo. Cerchiamo di evitare assembramenti. Non ci saremmo mai aspettati che la situazione durasse così a lungo. Durante il giorno aspettiamo con impazienza il calare della notte, ma quando arriva la notte, la paura e il panico dell’artiglieria e dei bombardamenti continui ci fanno desiderare di nuovo la luce del giorno. Speriamo che la notte finisca e poi speriamo che finisca anche il giorno. Questa è la nostra vita e non abbiamo idea di cosa accadrà dopo.

“Il rumore dei droni non ci abbandona mai, giorno e notte”

Finché li sentiamo volare ci sentiamo in pericolo. Un bambino di tre anni, rifugiato qui con la sua famiglia, non riesce a dormire a causa del rumore. Gli suggerisco di dormire durante il giorno e lui mi risponde che non può dormire. Dice che un aereo ci bombarderà.
Prima i bambini avevano orari specifici per dormire e svegliarsi, ma adesso non esiste un orario certo per dormire, svegliarsi, mangiare o prendere le medicine. Alcuni bambini chiedono cosa sta succedendo, perché, quando finirà, quando torneranno a casa, ma le madri non sanno cosa rispondere. I giovani che frequentavano le palestre e uscivano con gli amici oggi si sentono come se vivessero in una prigione. In realtà, nella Striscia di Gaza, abbiamo sempre vissuto come in una prigione, ma oggi viviamo in una minuscola cella. Dopo essere stati in una grande prigione chiamata Striscia di Gaza, oggi siamo in una cella chiamata zona di Khan Yunis, o zona meridionale.

“Nessun posto è sicuro qui”

Anche quando vuoi uscire, l’odore dei cadaveri, della polvere da sparo e del fosforo ti arriva addosso e ti fa pensare che non sopravviverai a lungo. Tutto ciò che proviamo oggi è terrore puro. La notte scorsa abbiamo assistito alla caduta di bombe a 200 metri da dove ci troviamo. Abbiamo sentito un boato e alcuni bambini sono letteralmente volati via dalle braccia delle loro madri. Siamo fuggiti qui in cerca di sicurezza, ma oggi anche il Sud non è sicuro. Nessun posto è sicuro qui. Oggi i bombardamenti sono ovunque. Quando i nostri figli vanno in bagno o si allontanano, temiamo che non ritornino.
Durante il nostro viaggio, le auto dietro di noi sono state bombardate e molte persone a cui era stato detto di spostarsi verso sud, perché era più sicuro, sono state uccise. Quando siamo arrivati qui, abbiamo pensato che qui potesse essere sicuro, come dicevano, ma con nostra sorpresa, non esiste un posto sicuro.

“Non so quanti anni ci vorranno per dimenticare quello che abbiamo passato”

Sono combattuta, non so se dover prendermi più cura dei bambini o degli adolescenti. Ciò che sta accadendo oggi a Gaza è peggio di qualsiasi altra guerra mai avvenuta. I nostri figli oggi non parlano che di guerra e di paura. Mia figlia, che ha tredici anni, urlava di notte perché la sua amica era stata uccisa a Gaza e mi ha detto che saremmo dovuti rimanere a Gaza e morire insieme, piuttosto che soffrire e provare tutto questo dolore per i nostri vicini e amici.
Facciamo molta formazione e sensibilizzazione sulla gestione delle emergenze e delle crisi, ma nulla di ciò di cui abbiamo discusso è simile a ciò che sta accadendo oggi. Ciò che è successo questa volta va oltre ogni aspettativa, oltre qualsiasi cosa possa essere insegnata, oltre ogni esperienza e oltre ogni piano di emergenza. Nemmeno le organizzazioni internazionali hanno sperimentato una tale paura da non poter garantire la sicurezza per sé stesse e per i propri dipendenti. Ci sentiamo costantemente in pericolo. Se le istituzioni internazionali non possono proteggere i propri lavoratori, come possono farlo le singole persone? Non so quanti anni ci vorranno per dimenticare quello che abbiamo passato, che stiamo passando. Non so quanti anni ci vorranno per dimenticare la perdita di serenità, la paura, il panico. Non so quanti anni ci vorranno per dimenticare la sensazione di aspettare e non sapere chi sarà il prossimo della cui morte avrai notizia.

“Siamo rimasti quattro giorni con i cadaveri vicino a casa”

Tutto sa di morte. L’edificio accanto era di cinque piani; gli ultimi piani sono completamente crollati dopo l’ennesimo bombardamento. Persone e pavimenti sono semplicemente scomparsi sotto le macerie. Le ruspe non sono riuscite a rimuovere i corpi. Alcune schegge hanno ferito i miei figli e siamo rimasti quattro giorni con i cadaveri vicino a casa, abbiamo dovuto indossare maschere inzuppate d’acqua, soprattutto di notte, per coprire l’odore dei cadaveri e della polvere da sparo.
I miei figli hanno cercato di tirare fuori le persone intrappolate sotto le macerie; sono nostri amici e parenti. Hanno scavato con le mani finché non è uscito loro il sangue e sono riusciti a far emergere solo parti dei corpi. Hanno incubi ogni notte.

“Vorrei avere il tempo di piangere per le persone che amo che non ci sono più”

Stavo parlando con un mio collega, mi ha detto che, scavando tra le macerie, ha trovato prima la mano di sua figlia e poi il suo piede. Un altro collega che lavorava con noi nel laboratorio d’arte è stato ucciso. Provo una stretta al cuore ogni volta che passo davanti al suo laboratorio. Vorrei avere il tempo di piangere per le persone che amo che non ci sono più. Non riesco a trovare il tempo per essere triste. Cerco di lavorare tutto il giorno per garantire acqua, elettricità e beni di prima necessità. Cerco di tenermi occupata e non pensare e piangere per le persone che se ne sono andate.
Prima i bambini chiedevano ai loro genitori: “Quando mi porterai a fare una passeggiata?”. Oggi la loro domanda è: “Saremo vivi domani?”. “Oggi moriremo?”. Questo è ciò che preoccupa i bambini adesso.

“I bambini di notte chiedono quanto resteremo qui”

“Ci hai detto che saremmo rimasti qui per due giorni e poi saremmo tornati, ma ci hai mentito e noi vogliamo tornare indietro adesso” dicono i bambini. Sono sconvolti da quanto sta accadendo. Alla fine non sappiamo molto e non siamo noi a decidere se restare qui. Alcuni ci hanno detto che non dovremmo restare nello stesso posto, perché potrebbe essere preso di mira e moriremmo tutti. Suggeriscono di dividerci così non moriremo tutti. Non c’è alcuna sicurezza.
Questa mattina, i figli della mia sorella minore stavano scrivendo i loro nomi sulle mani. Dicono di aver saputo che i bambini vengono identificati dai nomi scritti sulle mani; quindi, scriveranno i loro nomi perché hanno paura che nessuno riconosca i loro corpi.

“Oggi ci chiediamo come moriremo”

Ci facciamo tutti mille domande… La tragica notizia della morte di qualcuno riguarderà te o la riceverai? Le persone ti faranno le condoglianze per una tua perdita o le farai tu per la morte di qualcun altro? Ci sarà qualcuno che seppellirà i morti? Oggi il mio desiderio è morire senza che il mio corpo venga fatto a pezzi, che trovi degna sepoltura. Non sono l’unica a desiderarlo. In passato ci si chiedeva quando sarebbe finita la guerra, ma oggi ci chiediamo come moriremo.

Credit

FOTO: Marwan Sawwaf/ Alef MultiMedia/ Oxfam

VIDEO: Jean-Sebastien Durocher/ Oxfam

Copyright Holder

Oxfam

 

*Il nome è stato cambiato per proteggere l’identità della persona.