Mi chiamo Choul, ho 30 anni e sono un rifugiato sudsudanese in Etiopia. Stare a fianco della mia comunità è diventata la mia vita
Prima della guerra, la nostra vita in Sud Sudan era semplice: andavamo al fiume, pescavamo e ci prendevamo cura di capre e mucche. Ma quando mio padre è morto, tutto è cambiato. Avevo 16 anni, e all’improvviso mi sono ritrovato a prendermi cura dei miei fratelli più piccoli.
Tre giorni dopo la morte di mio padre, alcuni uomini della nostra comunità sono venuti da noi e mi hanno detto:
“Ora sei un uomo. Sarai tu a prenderti cura della tua famiglia.”
Quelle parole mi hanno dato forza. Da allora, ogni passo che ho fatto è stato per proteggere la mia famiglia.
Poi è arrivata la guerra. Siamo stati costretti a fuggire.
Un ritratto di Chuol Gatjang, 30 anni, nell'insediamento per sfollati sudsudanesi di Jewi, a Gambella, Etiopia. Credit: Antonio De Matteo. Illustrazione: Francesco Chiacchio
I miei fratelli avevano solo 5, 6 e 7 anni. Camminavamo per giorni interi senza cibo, attraversando fiumi pericolosi e bevendo acqua sporca per sopravvivere. Li portavo uno alla volta: prendevo in braccio il più piccolo e tornavo indietro a prendere l’altro.
Mia madre era anziana e non poteva aiutarmi. Ma non mi sono mai fermato. Non ho pianto. Dovevo essere forte per loro. Il nostro viaggio è durato quasi quattro mesi. Il 14 aprile siamo finalmente arrivati al campo profughi. Lì ho incontrato Nyuon, un’altra rifugiata, e ho iniziato a fare volontariato con un’organizzazione che si occupava di minori non accompagnati.
Sentivo di non dovermi prendere cura solo della mia famiglia, ma di tutta la comunità.
Ho iniziato a insegnare ai ragazzi che non avevano superato gli esami etiopi. Offrivo lezioni di recupero e aiutavo i bambini più piccoli a studiare a casa mia.
Volevo che i miei fratelli crescessero con un altro ricordo: quello di qualcuno che non si è mai arreso.
Con altri giovani rifugiati abbiamo fondato un gruppo per costruire la pace tra rifugiati e comunità ospitante. Volevamo migliorare le condizioni del campo.
Abbiamo iniziato con piccole ricerche sui bisogni delle persone. All’inizio le organizzazioni internazionali non ci prendevano sul serio. Ma poi Oxfam ci ha dato fiducia.
Oxfam ci ha formato su gestione dei progetti, costruzione della pace e leadership. A novembre siamo diventati ufficialmente un’organizzazione. Hanno anche finanziato una nostra proposta per migliorare la gestione dell’acqua e dei servizi igienici.
Abbiamo spiegato alla comunità che i pozzi non sono “doni” da usare e basta, ma risorse da proteggere.
Abbiamo avviato un altro progetto con le donne rifugiate: la produzione di anfore in argilla. Abbiamo coinvolto un gruppo di donne e un esperto da Addis Abeba per formarle. Le anfore verranno vendute a basso prezzo, e donate alle famiglie più vulnerabili. Progetti semplici, con un impatto reale.
Quando ero piccolo, mio padre mi parlava del mondo fuori dal nostro villaggio. Mi diceva di rispettare gli altri, di conoscere culture diverse, di aiutare chi ha bisogno.
Solo oggi capisco il senso di quelle parole.
Il mio sogno è continuare ad aiutare. Voglio formarmi meglio, per dare di più. Voglio restare al fianco della mia comunità.
So che è quello che mio padre avrebbe fatto.
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