Mi chiamo Nyabeel*, ho 28 anni e sono una rifugiata sud-sudanese in Etiopia. La speranza di una nuova vita è diventata la mia forza.
Non sono nata disabile. Da bambina sono entrata in coma e, quando mi sono svegliata, le mie gambe non si muovevano più. La mia famiglia mi ha portata in ospedale, ma era troppo tardi. I medici hanno detto che, se fossimo arrivati prima, si sarebbero potute salvare. Ma vivevamo lontano da qualsiasi ospedale, e quando finalmente ho ricevuto cure, la paralisi era ormai permanente.
Nonostante le difficoltà fisiche, riuscivo a vivere con dignità. Ma quando è scoppiata la guerra, tutto è cambiato. Mentre tutti fuggivano in ogni direzione, io non ho avuto altra scelta che affidare la mia vita alla mia comunità.
Restare in Sud Sudan non era più possibile. A rendere il mio cammino ancora più difficile è stata la perdita di mio marito, ucciso durante una lite tra amici.
Prima di partire, avevo sentito parlare dell’Etiopia dalla mia comunità. Dicevano che lì le persone con disabilità ricevevano sedie a rotelle, che ai rifugiati veniva distribuito cibo e che avremmo trovato sicurezza.
Ero stanca di strisciare per terra.
I miei vicini mi hanno portata in spalla per dieci giorni. Alcuni portarono anche il mio bambino. Non esitarono mai, non mi fecero mai sentire un peso. Al contrario, mi sostenevano e mi incoraggiavano. Per la prima volta dalla morte di mio marito, sentii riaccendersi in me un filo di speranza.
Un ritratto di Nyabeel 28 anni, madre di tre figli nell'insediamento per sfollati sudsudanesi di Jewi, a Gambella, Etiopia. Foto: Maheder Haileselassie Tadese. Illustrazione: Francesco Chiacchio.
La vita all’insediamento per sfollati è difficile. Dipendo totalmente dagli aiuti alimentari delle organizzazioni internazionali, ma spesso non bastano. Non abbiamo altra scelta che mangiare ciò che solitamente viene dato agli animali.
Anche l’acqua è un problema. A volte le pompe si rompono, e sono costretta a chiedere aiuto ai miei vicini. Nonostante tutto, i miei figli mi danno speranza. Quando li vedo andare a scuola, penso che un giorno miglioreranno la nostra vita.
Anche i miei vicini mi danno forza: spingono la mia sedia a rotelle senza che io lo chieda. Condividono quel poco che hanno.
Mi ricordano che non sono sola.
*Il nome è di fantasia, scelto per tutelare l’anonimato.
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