19 Settembre 2011

La lotta delle madri nel Corno d’Africa

 
Kenya, Il bambino di Namanakwee Ngamor è morto di fame. Credits: Irina Fuhrmann/Oxfam
Namanakwee Ngamor

Ho sempre creduto che sotterrare un figlio o una figlia sia la più traumatica esperienza che possa accadere a una madre, in quanto è una violazione dell’ordine naturale della vita. Ma se, nel peggiore dei casi, tuo figlio muore perché non sei in grado di fornirgli il cibo, il tuo dolore è aggravato per non essere in grado di rispondere all’istinto materno basilare: nutrirlo.

Ecco perché, quando Namanakwee Ngamor mi confida che meno di un mese fa suo figlio è morto di fame, nei suoi occhi affranti ho letto molto più che semplice dolore. “Mio figlio aveva cinque anni. Non abbiamo mangiato per intere settimane, ma lui non ce l’ha fatta a sopravvivere”, spiega la donna, mentre tiene in mano un sacco vuoto che utilizzerà per raccogliere la propria porzione di cibo distribuita oggi da Oxfam a Kanukurdio.

Questo piccolo villaggio nel nord del Kenya, è solo uno dei tanti colpiti dalla grave crisi alimentare del Corno d’Africa che minaccia più di 12 milioni di persone nella regione.
La fame non perdona, sta addosso ai più deboli, uccidendo soprattutto vecchi e bambini, ma è talmente devastante che colpisce anche gli adulti.
Le madri, dopo anni di avversità, hanno i corpi fragili e sono sempre più deboli: potrebbero soccombere da un momento all’altro.
Mary Nsaniana ha da poco seppellito sua figlia, madre dei suoi nipoti, morta a seguito di una malattia che, secondo la sua saggezza di donna cinquantenne, era dovuta al perdurare costante di fame e sete. La fame e la sete, infatti, sono due fattori che violano il naturale ordine della vita.


La popolazione locale non può comprendere le ragioni di questa siccità, il perché non piova da oltre cinque anni e nemmeno dove possano trovare la forza per andare avanti dopo aver perduto circa il 60% del loro bestiame. Le loro capre, le pecore, il bestiame, e anche i loro cammelli stanno morendo. E con la loro scomparsa sta venendo meno la loro unica fonte di reddito. “Nel momento in cui gli animali muoiono, capiamo che le persone seguiranno lo stesso destino ”, afferma Mary con un’espressione che tradisce un sentimento di rabbia e disperazione.


Un sentimento di disperazione, ma anche una determinazione a cercare un’alternativa alla morte. “Abbiamo bisogno di grano, così possiamo preparare le pappe per i nostri bambini prima che sia troppo tardi”, esclama Aite Eknba mentre tenta di sorreggere le sue bimbe, Apùa e Evei, i cui piccoli corpi stanno cedendo al tremendo peso della fame.

Dopo tre settimane in cui l’unico alimento a disposizione dei bambini è stato l’ edapal, uno dei frutti selvatici che cresce nella regione, i piccoli sono talmente deboli che per molto tempo non potranno digerire cibo solido. Nel caso in cui le madri non trovino al più presto del cibo appropriato per nutrirli, un’altra violazione dell’ordine naturale della vita minaccerà anche il villaggio di Nakimnet, dove più di 4.400 persone dipendono totalmente dagli aiuti umanitari.

In questo villaggio già sono stati seppelliti quattro bambini, vittime della fame e altri 626 stanno soffrendo a causa della malnutrizione. È impossibile misurare il sentimento di impotenza di queste madri, che sono obbligate ad aspettare per giorni gli aiuti umanitari per poter sfamare i propri figli.


Aite, Mary e Namanakwee sono solo tre delle migliaia di madri della regione che non hanno niente da mangiare e tantomeno hanno cibo da dare ai propri figli. I loro mariti, che una volta erano fieri pastori nomadi, oggi possono solo aspettare che cada finalmente la pioggia di cui hanno disperato bisogno.

La carenza di pascoli e i conflitti etnici che hanno colpito alcune aree al confine della regione un tempo fertili, sottopone i villaggi ad un virtuale stato di assedio, obbligando le persone a restare in questa drammatica attesa.


Tuttavia, per molte di queste donne, la sosta obbligata è stata l’occasione per prendere delle iniziative. Nel villaggio di Mila Matatu, ho parlato con Alice Atabo, l’agente designata da Oxfam per favorire la distribuzione del cibo. Questa donna intraprendente si è occupata di metter su un piccolo negozio di alimentari e può così aiutare la comunità a rifornirsi di cibo.

Tutto cominciò quando decisi di investire una piccola somma, che Oxfam mi aveva donato, perché partecipai a un progetto che prevedeva dei finanziamenti per avviare attività. Io comprai prodotti come latte, farina e zucchero. Non appena le persone vennero a sapere del mio negozio, iniziarono a comprare gli alimenti basilari da me. Nel corso del tempo”, spiega Alice, “sono stata in grado di rientrare economicamente con le spese e anche di fare richiesta di un ulteriore credito per espandere la mia attività. Inoltre, mi venne data una parte di cibo da distribuire gratuitamente alle famiglie più bisognose che venivano a prenderlo nel mio negozio”.

Oggi il cibo arriva dal centro di distribuzione e le persone, che possiedono dei buoni d’acquisto, sono impazienti di comprarlo, perché scarseggia e sta per finire”, afferma la donna mentre tiene in braccio il più piccolo dei suoi otto figli, un bimbo sorridente che, mentre la madre parla, gioca con la sua collana.

Alice è consapevole di essere una madre fortunata, perché ha abbastanza cibo per nutrire i suoi bambini.


Oxfam lavora nel nord del Kenya, distribuendo cibo a più di 200mila persone. Per anni abbiamo lavorato con le comunità dei pastori, sostenendo la creazione di punti di rifornimento d’acqua, aiutando la popolazione con programmi in cui si donano soldi da investire in attività lavorative, e favorendo  lo sviluppo di mezzi di sussistenza nuovi e alternativi per le comunità. [contributo]

Irina Fuhrmann, Media e Policy officer di Intermon Oxfam

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