14 Febbraio 2012

Abu Raed, la voce della comunità beduina

 
Abu Raed ci racconta come sia difficile la vita nelle comunità beduine nei Territori Occupati Palestinesi. Credits: Valentina Lanzilli
Abu Raed

Valentina Lanzilli ha raccolto per voi la testimonianza di Abu Raed, che racconta le difficoltà a cui vanno incontro le comunità beduine nell’area C – sotto controllo delle autorità militari e civili israeliane – aspettando l’espulsione anche da questa terra. (Mihtawish Community – Khan Al Ahmar, E1, Area C)


Un pacchetto di sigarette Imperial e un vecchio portacenere in vetro che cattura e riflette la luce proveniente dalle finestre ricavate nella capanna d’alluminio. Nell’unica grande sala, ricoperta da tappeti rossi, ci attende Abu Raed, che seduto per terra fuma una sigaretta. Siamo tra Gerusalemme e Jericho, un’area della Jordan Valley tecnicamente conosciuta come E1, nella comunità beduina di Mihtawish, una delle tante del villaggio di Khan Al Ahmar, sul quale come un macigno da ormai dieci anni pende la minaccia di spostamento forzato. Una piccola comunità composta da quindici famiglie, tutte legate alla pastorizia e alla produzione di latte e carne. Niente acqua potabile, niente elettricità, nessuna fognatura. Vivono qua dal 1952, anno in cui sono stati cacciati da Be’er Sheva, nel deserto del Negev, per arrivare in questo luogo, dove attendono di essere espulsi nuovamente.


Abu Raed, il mukhtar di Mihtawish, aveva ereditato da suo padre circa trecento tra capre e pecore, che per tanti anni sono state il mezzo di una sussistenza più che dignitosa. Oggi sono rimasti solo sedici animali. Abu Raed è stato costretto a venderli a causa delle restrizioni arrivate da Israele, come la mancanza dell’acqua, l’aumento del costo del mangime e soprattutto la sottrazione delle terre sulle quali pascolare, incluse nella parte israeliana attraverso il muro di separazione.


Um Raed, sua moglie, è molto felice del progetto di Oxfam Italia. Le donne della comunità sono tutte molto attive e creative, ma necessitano di un supporto per poter dare il via ad eventuali attività che non siano quelle strettamente legate alla pastorizia. A loro piacerebbe molto produrre gioielli e tappeti, che potrebbero vendere ai turisti oppure attraverso le reti di commercio solidale. Sarebbe una buona occasione per mantenere vive le loro tradizioni in un momento di totale incertezza nel futuro.


Alle ragazze invece piacerebbe fare un corso da parrucchiera, che potrebbe diventare un lavoro, soprattutto nei periodi dei matrimoni, in estate. Ma questi sono solo sogni, purtroppo la realtà è molto più amara, ricca di paura e incertezza. Quasi ogni giorno i coloni del vicino insediamento di Ma’ale Adummim, uno dei più grandi della West Bank, fanno incursione nel loro villaggio per verificare che niente di nuovo sia stato costruito. Qualsiasi nuova costruzione sarebbe considerata illegale e prontamente demolita. “Le incursioni dei coloni sono spesso violente, e ultimamente hanno rubato tutto il legno che avevamo conservato per costruire un piccolo asilo per i nostri bambini. Hanno detto che noi siamo liberi di costruirlo, ma fuori dall’area C” – ci racconta Abu Raed.


Il progetto del governo israeliano è di spostarli nella zona di Al’ Eizariya, ma la risposta della comunità è unanime; abitano questa terra da sessant’anni e vogliono rimanere qua oppure se devono essere spostati vogliono tornare nella loro terra originaria, nel deserto del Negev. L’altra piaga rimane quella della disoccupazione. Mohamed, il figlio del mukhtar, ha studiato nella scuola dell’Unrwa, situata all’interno al campo profughi di Qualandya ed è diventato un meccanico, ma trovare lavoro in territorio palestinese è molto difficile, e in quello israeliano l’accesso è vietato. Anche lui sogna una vita diversa.

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