26 Settembre 2016

Si inasprisce la spirale di violenza nella corsa globale alla terra

 

Il diritto alla terra per gran parte dei popoli indigeni e le comunità di piccoli agricoltori è sempre più un miraggio. In milioni sono costretti con la forza a lasciare la propria casa, mentre nel mondo si registra che un’estensione di terra pari alla Germania è stata messa in vendita nel totale disprezzo dei loro diritti. A rivelarlo è il nostro nuovo rapporto, Custodi della terra, difensori del nostro futuro, realizzato in collaborazione con la Land Matrix Initiative e presentato oggi a Terra Madre nell’ambito della campagna Land Rights Now.

L’impennata di violenza nella corsa alla terra

Il 75% delle oltre 1.500 transazioni fondiarie, indagate negli ultimi 16 anni, riguarda contratti relativi a progetti già in fase di realizzazione; ma il dato più preoccupante è che il 59% di queste riguarda terre comuni rivendicate da popoli indigeni e comunità di piccoli agricoltori, la cui titolarità alla terra è scarsamente riconosciuta dai governi. Solo in rari casi si è stabilito un dialogo preventivo con le comunità, mentre più spesso, e tragicamente, si è fatto ricorso alla violenza estrema che ha portato a omicidi e sfratti indiscriminati in moltissimi villaggi. Una prassi che, dalle osservazioni sul campo, sembra diventare la norma.

“Stiamo entrando in una fase nuova della corsa globale alla terra, più pericolosa – ha detto Roberto Barbieri, il nostro direttore generale – La frenetica compravendita di milioni di ettari di foreste, coste e terreni coltivati, in molti paesi poveri, porta a omicidi e sfratti delle popolazioni indigene. Un vero e proprio etnocidio. Gli accordi e i progetti realizzati sulla terra che viene accaparrata avvengono nel totale disprezzo del consenso delle comunità locali che lì vivono da sempre. Occorre intervenire con urgenza in questo quadro destinato a generare conflitti sempre più sanguinosi”.

La grande disuguaglianza nella proprietà della terra

2,5 miliardi di persone appartenenti ai popoli indigeni abitano più di metà della Terra, ma formalmente gli vengono riconosciuti titoli di proprietà soltanto per un quinto di essa. Un’emergenza che continua a peggiorare col passare del tempo e che, evidenzia il report, è sempre più inestricabilmente legata alla lotta alla fame così come alla tutela della biodiversità e alla lotta ai cambiamenti climatici. Ecco perché, attraverso la campagna Land Rights Now, lanciamo un appello ai governi dei diversi paesi coinvolti, affinché la quantità di terra formalmente posseduta dalle comunità indigene raddoppi entro il 2020.

“Privare milioni di persone della terra su cui hanno vissuto per intere generazioni rappresenta un attacco alla loro identità culturale, oltre che alla loro dignità e alla loro sicurezza. – continua Barbieri – Salvaguardare il loro diritto alla terra è essenziale per affrontare in maniera decisa il problema della fame, della disuguaglianza e del cambiamento climatico. Per questo motivo è necessario che i governi se ne facciano carico il prima possibile”.

L’impatto sulle comunità indigene

Il rapporto, nel delineare, con nuovi dati, il contesto globale nella corsa all’accaparramento della terra a spese delle comunità indigene, analizza sei casi in paesi in cui le popolazioni hanno visto la loro vita sconvolta da sfratti e violenze.

  • Honduras: Miriam Miranda, compagna di mille battaglie della leader ambientalista indigena Berta Caceres brutalmente uccisa nel marzo scorso, continua, nonostante le innumerevoli minacce di morte, a guidare la protesta del popolo Garifuna per il controllo delle loro terre cedute dal Governo ad imprese private per la costruzione di “zone economiche speciali”, amministrate con il solo obiettivo di trarne profitto;
  • Perù: i Quechua dell’Amazzonia hanno intrapreso una battaglia legale per riottenere il controllo delle loro terre, danneggiate da anni di trivellazioni petrolifere;
  • Australia: gli aborigeni di Kimberley resistono al governo locale, più interessato ai profitti derivanti dalle attività minerarie e da progetti di conservazione che al benessere della sua popolazione;
  • Sri Lanka: centinaia di persone sono al momento sfollate all’interno del paese, dopo che il governo le ha sfrattate per favorire la costruzione di strutture alberghiere;
  • India: l’aumento di domanda globale di legno teak per mobili, pavimenti e altri accessori per la casa ha provocato un’espansione delle piantagioni a scapito della comunità di Kutia Kand Adivasi in Odisha, nell’est del paese, che senza le sue foreste rischia di scomparire;
  • Mozambico: nella comunità di Wacua, la decisione unilaterale del suo leader, persuaso dai rappresentanti di un’azienda agro-alimentare, ha provocato, nel giro di un solo mese, lo sfratto dalle proprie terre di un’intera comunità impossibilitata, per via di processi lunghi e complessi, ad ottenere e rivendicare titoli e documenti legali di proprietà della terra.

Sviluppo turistico a costo di espropri? Le espulsioni forzate e le confische di terra in Sri Lanka

È a Paanama, nella zona costiera nell’est dello Sri Lanka, che si registra uno dei casi più emblematici degli ultimi anni di espulsioni forzate di intere comunità dalla loro terra.

Qui infatti per 40 anni, fino al 2010, hanno vissuto 350 famiglie di contadini e pescatori. Con la fine della guerra civile che per 30 anni ha lacerato il paese, la provincia diventa un’ambita località turistica, richiamando surfisti da tutto il mondo, anche dall’Italia. Basti pensare che solo nel 2015 in Sri Lanka sono arrivati ben 25 mila turisti italiani.

Conseguenza? Centinaia di famiglie nel giro di una notte vengono estromesse con la forza dall’esercito dalla propria terra: insediamenti ridotti in cenere, raccolti andati distrutti e pressioni da parte dei militari costringono la popolazione a chiedere ospitalità a familiari o ad arrangiarsi con rifugi di fortuna. E viene così meno per queste famiglie la terra da cui dipende la loro stessa sopravvivenza, la terra ereditata da propri padri.

In breve tempo a Paanama sorgono una base militare e hotel di lusso. Chi qui viveva del sudore del proprio lavoro nei campi adesso nella migliore delle ipotesi è costretto ad affittare un terreno in un’altra provincia, solo per poter sfamare la propria famiglia.

Ne seguono anni di proteste pacifiche che porteranno nel 2015 il Governo a decidere di restituire la terra alle famiglie che per 6 anni sono state costrette lontane da casa. Una promessa che però dopo un anno non è ancora stata mantenuta.

Da qui la petizione che abbiamo lanciato, in collaborazione con Slow Food e Mani Tese, con la richiesta urgente al Governo dello Sri Lanka di liberare quanto prima le terre occupate ingiustamente e restituirle immediatamente alla comunità di Paanama.

Se è vero infatti che il turismo è un settore chiave per lo sviluppo dello Sri Lanka, è anche vero che questo non può avvenire a spese delle comunità locali.  Esclusa da qualsiasi processo decisionale, la comunità di Paanama non ha infatti minimamente beneficiato dei profitti dello sviluppo turistico dell’area. Un’ingiustizia a cui porre fine. Da più parti del globo con una firma in solidarietà alla comunità di Paanama.

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